L’evoluzione della politica estera americana nell’attuale sistema internazionale unipolare

Antonio Bandiera
Antonio Bandiera
Tenente Colonnello dei Carabinieri, Ufficiale Addetto alla Sezione Trasformazione, Ufficio Pianificazione Generale, III Reparto SMD




1. Premessa
2. Effetti degli attentati dell’11/09/2001
3. La national security strategy 2002
4. La national security strategy 2006
5. Conclusioni


1. Premessa
Nell’attuale momento storico, caratterizzato da un frenetica spinta a cambiamenti - anche radicali - in molteplici settori della società, a lacerazioni profonde determinate da evidenti squilibri nella distribuzione della ricchezza nelle diverse aree del Pianeta, ad una globalizzazione multimediale che permea il nostro vivere quotidiano con la promessa di annullare le distanze tra i popoli creando però spesso massificazione, conformismo ed appiattimento culturale, restiamo spesso attoniti ed impotenti di fronte ad un’escalation della violenza e del ricorso all’uso della forza sulla scena internazionale neanche ipotizzate all’indomani della fine della guerra fredda; al tempo stesso mai, prima dell’attuale contesto storico, ci si è confrontati con manifestazioni del terrorismo che in modo così stringente condizionassero le relazioni internazionali.
Si tratta certamente di una trasformazione dovuta anche all’affermarsi di una struttura unipolare(1) del sistema internazionale, così come delineata da Charles Krauthammer nel libro “the unipolar moment” del 1990, condizione caratterizzata da una formidabile crescita economica statunitense a cui corrispondono:
-  incertezze economiche del Giappone e della Germania;
-  debolezza della attuale Russia nei confronti della ex-URSS;
-  evoluzione del processo di integrazione europeo che ha portato ad una forte infrastruttura sociale ma ad una lenta crescita della capacità militare, mostrando un’Unione Europea di 27 Membri troppo spesso priva di una posizione univoca sul piano della politica estera (come dimostrano, ad esempio, le posizioni divergenti emerse sull’Iraq, sulla guerra nella ex-Jugoslava ed in ultimo il fallimento - per ora - della Costituzione Europea);
-  avvento di “giovani” potenze quali la Cina e l’India;
-  difficoltà della NATO nel processo di necessaria trasformazione dovuto al mutamento dello scenario mondiale.
Evoluzioni della scena internazionale che hanno avuto ed ancora determinano pesanti ripercussioni sulle principali organizzazioni internazionali a cui sono demandate finalità e compiti attinenti alla sicurezza internazionale(2).
Riteniamo che proprio tali delicate tematiche sulla trasformazione degli scenari internazionali e sugli equilibri che intorno ad essi vengono ricercati dalle organizzazioni internazionali, possano oggi influenzare, in modo determinante, la politica estera americana chiamata a scegliere tra unilateralismo ed isolazionismo e un ruolo meno autoritario, maggiormente collaborativo e più attento alle esigenze dei propri partner storici europei.
Ciò premesso, pur non condividendo un approccio che individui un unico terrorismo globale da combattere senza quartiere a fianco degli USA (perché convinti che, sotto un profilo meramente tecnico-scientifico, non esista un terrorismo internazionale quale fenomeno unitario e globale(3)), si è propensi ad una prospettiva che sposi il concetto delle interlocking instituctions(4) in virtù del quale le principali organizzazioni internazionali, in modo sinergico ed a condizioni di reciprocità e di mutua assistenza (mutually reinforcing institutions), orientino la propria attività verso la ricerca di mirate e diversificate risposte alle varie tipologie di minacce terroristiche oggi incombenti. In effetti, dopo la caduta del muro di Berlino, è emerso (a noi europei in modo evidente) che nessuna organizzazione internazionale da sola sia oggi in grado di dare una risposta esaustiva alla nuova realtà multidimensionale della sicurezza.
Le nuove minacce nel sistema unipolare(5), di natura asimmetrica, richiedono quindi risposte flessibili in un contesto sinergico e globale in cui operino organizzazioni internazionali credibili, forti, mature e stabili nel tempo.
Tale visione concettuale è un primo, fondamentale punto di partenza, che riteniamo sia stato ben sintetizzato dalla seguente Dichiarazione: “Le sfide che fronteggeremo in questa nuova Europa non possono essere affrontate globalmente da un’unica istituzione, ma solo in una cornice di istituzioni interdipendenti che riuniscano i Paesi d’Europa e dell’America settentrionale ...
Questa interazione sarà della massima importanza nel prevenire le instabilità e le divisioni, che potrebbero derivare da varie cause, quali disparità economiche ed esasperato nazionalismo” (Dichiarazione di Roma sulla Pace e la Cooperazione, Vertice NATO 8 novembre 1991).
Un approccio concettuale reso ancor più necessario dalle difficoltà delle liberali società occidentali nel fronteggiare, a volte in modo isolato, le organizzazioni terroristiche contemporanee, formidabili nell’avvalersi delle molteplici occasioni offerte dalle nuove tecnologie e ad indirizzare masse d’individui verso la strada del fanatismo e del fondamentalismo.
In un contesto geopolitico caratterizzato da continue e radicali trasformazioni in seno alla NATO, all’ONU ed alla Unione Europea finalizzate ad individuare e ad adottare misure idonee a contrastare le “nuove” minacce del terrorismo internazionale(6), si ritiene opportuno un approfondimento sulla evoluzione della politica estera americana a seguito dei tragici attentati dell’11 settembre: un’esigenza non celebrativa né fine a se stessa in quanto, come si cercherà di porre in luce, non pochi sono i condizionamenti che il nuovo atteggiamento statunitense ha determinato (ed ancora produce) sulle citate organizzazioni internazionali e, più in generale, sulla scena internazionale.

2. Effetti degli attentati dell’11/09/2001
Come anticipato, gli attentati alle Twin Towers dell’11 settembre 2001 hanno determinato conseguenze e mutamenti eccezionali nello scenario internazionale (probabilmente non ipotizzabili neanche dagli stessi ideatori/esecutori); circostanza, quest’ultima, anche evidenziata:
-  dall’aver “fortemente contribuito” (se non causato) all’insorgere di ben due conflitti internazionali;
-  dall’aver reso necessaria una globale rivisitazione della politica estera americana;
-  dalla diversa rilevanza attribuita all’evento dagli USA rispetto agli europei: i primi riservano, infatti, a tali attentati un effetto di cesura con le precedenti strutture del sistema internazionale pari, se non addirittura più profondo, rispetto a quello realizzato dalla caduta del Muro di Berlino; visione in contrasto con quella europea che, al contrario, riconosce una primazia storica alla fine della Guerra Fredda. Di qui i noti contrasti sull’idea della guerra preventiva che, per gli Stati Uniti, rappresenta una conseguenza inevitabile della propria, attuale, visione di un Sistema di guerra;
-  dalla ormai consolidata percezione del terrorismo come minaccia incombente su popoli ed istituzioni(7);
-  dall’accelerazione verso la ricerca di una definizione condivisa di terrorismo da parte della comunità internazionale.
Un evento, quindi, che può essere analizzato sia nella ricerca di elementi di continuità o novità rispetto a precedenti episodi di stragismo di matrice terroristica sia attraverso l’individuazione dei mutamenti politici internazionali direttamente ed immediatamente riconducibili allo stesso.
Con riguardo al primo profilo, circa le dinamiche con cui l’attentato stesso è stato concepito, organizzato e condotto, senza voler modificare o sottovalutare la natura stessa dell’episodio, si è concordi nel riscontrare il ripetersi di pregresse, più o meno collaudate, metodologie(8) (atto di guerra asimmetrica, atto di terrorismo internazionale, individuazione degli USA quale obiettivo, attacco al territorio americano, appoggio di Stati sostenitori, sequestro di aerei, distruzione di aeromobili, coordinamento di molteplici attentati simultanei, tipologia del bersaglio, ripetizione dell’attentato contro il medesimo obiettivo, ricorso ad attentatori-suicidi, assenza iniziale di rivendicazione).
La vera novità risiede, invece, proprio negli effetti catastrofici causati dall’attentato sia per il gran numero di vittime ed entità dei danni sia per l’impatto psicologico che ha contribuito a “ridefinire la natura dei nostri tempi”(9).
In relazione, invece, ai concreti mutamenti politici internazionali riconducibili agli attentati in esame si sottolinea:
-  l’accelerazione del riallineamento di medie-grandi potenze a fianco degli USA, la ricerca di nuovi alleati per le mutate strategie americane, la rinegoziazione con precedenti, storici alleati(10);
- il tentativo, spesso riuscito, di inserire il proprio, locale, conflitto nella guerra globale contro il terrorismo (emulazione della guerra preventiva); vari attori sulla scena internazionale hanno scelto tale opzione per rafforzare la loro posizione locale (la Russia di Putin per aver mano libera in Cecenia; l’Israele di Sharon; l’India che ha invocato la possibilità del ricorso alla guerra preventiva, per problemi di terrorismo, in ordine ai propri contrastati rapporti con il Pakistan); tale scelta, d’altronde, se da un lato fa guadagnare in termini di potere e legittimazione agli occhi dell’Occidente, comporta però ulteriori problematiche, di non secondaria importanza, tra cui la chiusura di spazi negoziali con i terroristi ed un aggravio della crisi delle regole internazionali;
-  una nuova fase di corsa ad armamenti idonei a condurre conflitti asimmetrici(11), ma non finalizzati a colpire direttamente il territorio americano (ipotesi piuttosto difficile, oggi, da realizzare);
-  lo sviluppo delle capacità di intelligence per anticipare le mosse di un avversario che, per definizione, agisce in modo subdolo ed in clandestinità;
-  il processo di trasformazione di NATO (della quale si sottolinea la capacità di essere uscita da un grave momento di crisi), ONU ed UE;
-  l’affermarsi di nuovi equilibri geopolitici (il Teatro principale si è nettamente spostato dall’Europa all’Asia e, per taluni aspetti, al Continente africano).
Forse l’effetto più grave consiste proprio nell’aver determinato l’aggravarsi dell’instabilità internazionale, ponendo anzitutto in discussione le norme che hanno regolato per decenni la scena internazionale sostituite, di fatto, da nuove regole dal marcato carattere discriminatorio se, ad esempio, ci si riferisca alla disciplina dell’uso legittimo della violenza(12).


3. La national security strategy 2002
In riferimento agli effetti che gli atti terroristici dell’11 settembre hanno avuto espressamente sugli USA, non ci si può esimere dal constatare che, da una prima, ovvia, sensazione di “inattesa” e “colposa” vulnerabilità del territorio statunitense si è passati ad una formidabile dimostrazione della potenza americana che ha evidenziato incredibili doti di ripresa, coesione e resistenza. Una fase, quest’ultima, venuta alla luce attraverso un laborioso processo di ridefinizione della politica estera degli Stati Uniti. Un processo che era già in fieri negli Stati Uniti, in relazione sia a nuovi ruoli da attribuire alle istituzioni ed alle organizzazioni internazionali sia ad una rinegoziazione delle alleanze con gli europei. Purtroppo, però, solo con i tragici eventi dell’11 settembre si è avuta la determinazione per una revisione in grande stile della strategia globale americana(13). In tale contesto, con il documento denominato The National Security Strategy of the United States of America del Settembre 2002 (NSS 2002), gli Stati Uniti hanno optato per una nuova politica estera, ridefinendo la minaccia, il proprio impegno, il concetto di stabilità e quello di deterrenza.
Si tratta di un documento di grande valenza politica elaborato, di concerto, dal White House Staff e dal National Security Staff; firmata dal Presidente degli USA, la NSS 2002 è prevista dal Goldwater - Nichols Act del 1986 che ne impone la presentazione annuale al Congresso (cadenza solitamente non rispettata). Alla base della NSS 2002, articolata su un preambolo e nove capitoli, si nota un forte idealismo, che permea la nuova missione USA, unitamente ad accenni di trionfalismo quasi a voler dire che, avendo una missione e le capacità per perseguirla, la vittoria non potrà mancare! Un’eccessiva sicurezza che è forse tra le cause principali delle attuali difficoltà americane in Iraq.
Il documento chiarisce, anzitutto, che, dopo l’11 settembre 2001, si è di fronte ad un nuovo ordine internazionale da alcuni anche definito di “post - post Guerra Fredda”(14): un sistema di guerra che, nella visione americana, ha una connotazione addirittura (volutamente) bipolare conferitagli dalla guerra globale al terrorismo.
Un perenne conflitto, quindi, tra il bene ed il male, in cui non trova spazio il diritto alla neutralità e nel quale ogni conflitto regionale è parte di quello generale contro il terrorismo (impostazione da più parti criticata perché ritenuta priva di fondamento scientifico).
Gli obiettivi della nuova politica estera sono indicati nel Preambolo della NSS 2002: “difenderemo la pace combattendo i terroristi ed i tiranni. Preserveremo la pace costruendo ottimi rapporti con le grandi potenze. Diffonderemo la pace incoraggiando le società libere e aperte in ogni continente”.
Nel documento finale sulla strategia di sicurezza nazionale dell’amministrazione Clinton, del dicembre 1999, gli obiettivi erano invece: “Accrescere la sicurezza dell’America. Sostenere la prosperità economica dell’America. Promuovere la democrazia ed i diritti umani all’estero”.
Notevoli le differenze tra le due impostazioni: mentre Bush sottolinea la difesa e l’estensione della pace, Clinton sembra soltanto presumerla; ad una democrazia soltanto “promossa” anche all’estero risponde la dottrina Bush con il sostegno alla democrazia in ogni Continente.
Ecco quindi una maggiore determinatezza della nuova strategia, per la quale la globalizzazione non è più una mera fonte di opportunità economiche ma un fattore di rischio, da gestire con attenzione.
Da semplice minaccia il terrorismo assurge a rischio concreto al pari di quello discendente dalle tirannie. Pur essendo notevolmente diminuiti i danni potenziali derivanti dall’utilizzo delle armi nucleari della contrapposizione bipolare, è di contro notevolmente aumentata la possibilità di devastazioni tramite armi di distruzione di massa.
Nella parte dedicata alla revisione della minaccia la NSS 2002 individua tre obiettivi per la missione americana:
-  il gruppo degli Stati canaglia (rogue States), di per sé fonte di instabilità e di conflitti (da combattere con decisione(15));
-  gli Stati al collasso (failure States) o già collassati e non in grado di garantire che il proprio territorio non diventi terreno fertile per organizzazioni terroristiche (di qui il nuovo interesse statunitense per il Continente africano);
-  le organizzazioni terroristiche.
Nella visione della dottrina Bush si tratta di tre tipologie di avversari tra loro, a vario titolo, collegati: gli Stati canaglia possono determinare il collasso dei failure States e, nei relativi territori, favorire l’affermarsi di gruppi terroristici. In base alla nuova politica gli Usa si impegnano ad eliminare i terroristi ovunque essi siano ed i regimi loro sostenitori non rispettando, quindi, la sovranità di questi ultimi. Di qui però l’errata equazione in base alla quale colpire uno dei tre nemici corrisponderebbe a colpirli tutti contemporaneamente. Le attuali vicende dimostrano che la conquista di uno Stato canaglia come l’Iraq (poi al collasso) ha richiesto il mantenimento di una ingente forza militare che, paradossalmente, si sta confrontando con un’escalation della violenza sempre più preoccupante.
Pur essendo una politica che non prescinde dalla deterrenza(16), dal contenimento e da un approccio multilaterale(17), la NSS 2002 introduce il ricorso alla strategia di preemption: “non possiamo lasciare che siano i nostri nemici a sparare il primo colpo”.
Una strategia che richiede, per la sua attuazione, il mantenimento dell’egemonia americana sulla scena mondiale (“l’America ha, e intende mantenere, una potenza che vada al di là della sfida”) in quanto:
-  si ritiene necessario impedire sul nascere l’emergere di uno sfidante/competitore globale (tipo la Russia, la Cina o la stessa Europa);
-  occorre scongiurare che si creino egemonie ostili in determinate aree regionali;
-  la supremazia militare deve anche essere strumentale al perseguimento di una efficace politica di non proliferazione di armi di distruzione di massa.
Un’egemonia che gli USA non vogliono condividere con altri in quanto si considerano i veri difensori dei valori umani (a differenza delle Nazioni Unite che considerano tutti gli Stati allo stesso livello, indipendentemente dal regime interno) ed anche gli unici ad essere realmente “efficaci”. Tale dottrina aggiunge poi che le stesse grandi potenze preferiscono la supremazia di un solo Stato egemone, a condizione che sia ispirato a principi di libertà, democrazia e tutela dei diritti dell’uomo universalmente riconosciuti.
Come nel recente passato l’obiettivo americano è ancora di restare egemoni e quindi i garanti/guardiani del mondo ma non più difendendo lo status quo (come nella Guerra Fredda e nella Prima Guerra del Golfo); la nuova politica si prefigge infatti lo scopo di perseguire l’ordine internazionale cambiando(18), ove necessario, lo status quo per abbattere i regimi produttori di conflitti e mantenere la supremazia militare. Di qui una nuova visione di attivismo offensivo attraverso la strategia di preemption, la cui base legale viene così sottolineata: “Per secoli le leggi internazionali hanno riconosciuto che le nazioni non devono necessariamente subire un attacco prima di poter legittimamente agire al fine di difendersi da forze che prospettano un imminente pericolo di attacco”.
Volendo inquadrare le richiamate motivazioni giuridiche nel contesto internazionale, dobbiamo indubbiamente riconoscere che il problema della prelazione, intesa come prevenzione di un attacco imminente, è una questione molto difficile. Il principio di autodifesa è formalmente ed esplicitamente riconosciuto nella Carta delle Nazioni Unite come diritto intrinseco e non creato da alcuna convenzione.
Ecco così sorgere il problema relativo al momento in cui nasca tale diritto e l’intervento militare sia giustificato(19). La NSS 2002 afferma che gli USA devono essere preparati a fermare gli stati canaglia prima che questi siano in grado di minacciare o usare armi di distruzione di massa contro i loro “alleati” ed “amici”.
A ben vedere tale approccio non limita l’autodifesa alla prelazione, ma estende il concetto alla guerra preventiva e quindi all’uso della forza militare anche quando l’unica minaccia sia una vaga ed incerta possibilità di conflitto in un imprecisato futuro(20). Ripercorriamo le fasi con cui la NSS 2002 intende dimostrare la legittimità della prelazione/guerra preventiva nei confronti degli stati canaglia con armi di distruzione di massa:
-  anzitutto il già richiamato diritto di autodifesa che non implica affatto che si debba ricevere il primo colpo; uno Stato ha il diritto di agire di iniziativa quando la necessità dell’autodifesa è istantanea, prevaricante e non lascia scelta di mezzi né margini temporali tali da consentire un intervento della comunità internazionale(21);
-  si osserva poi che terroristi e Stati canaglia potrebbero avere a loro disposizione armi (di distruzione di massa) facilmente occultabili, trasportabili segretamente ed impiegate all’improvviso(22); ecco quindi la liceità dell’agire in anticipo per difendersi, anche nei casi in cui permanga incertezza su modalità, tempi e luoghi dell’attacco nemico.
Il diritto alla preemption (nell’accezione di guerra preventiva o autodifesa anticipata) presuppone quindi, per definizione, il diritto di agire quando ciò risulti ancora possibile.
Se l’attesa per l’imminenza dell’attacco sia tale da pregiudicare un intervento efficace, la vittima sarà destinata a subire il primo colpo; interpretazione che svuoterebbe di significato il diritto.
Qualora gli Stati canaglia riescano ad impossessarsi di armi di distruzione di massa, un’efficace azione per eliminare tale capacità offensiva può anche diventare impossibile; il problema non è tanto che tali armi vengano impiegate con minimo preavviso, quanto che il loro uso a sorpresa potrebbe essere decisivo e che tale capacità, ben occultata, potrebbe rendere operativamente impossibile la prelazione.
La ridefinizione della politica estera degli Stati Uniti si collega proprio a tale impostazione della strategia difensiva. L’adozione della preemption come base dottrinale richiede un ripensamento del ruolo americano nel quadro delle istituzioni globali, prevedendo libertà di azione ovvero la possibilità di adottare le proprie scelte politiche senza la necessità di consultare preventivamente o farsi condizionare da altri attori.
Sotto tale profilo il passaggio dal multilateralismo dell’amministrazione Clinton all’attuale unilateralismo può riassumersi con la nota dichiarazione dell’ex- Ministro della Difesa americano Paul Wolfowitz: “è la missione a determinare la coalizione”; si tratta, ovviamente, delle c.d. coalizioni dei “volenterosi”, certamente differenti dalle tradizionali alleanze permanenti.

4. La national security strategy 2006
Il 16 marzo 2006 è stata pubblicata una nuova edizione della National Security Strategy Usa (NSS 2006). Nell’introduzione già troviamo significative parole del Presidente Bush in relazione alla guerra al terrorismo: “L’America è in guerra”. A tal riguardo Bush aggiunge che “Tra la strada della paura e quella della fiducia” ha scelto quella della fiducia. Altrettanto ad effetto il messaggio del Presidente nella conclusione: “Per risolvere questi problemi sono necessari effettivi sforzi multinazionali. La storia ha dimostrato tuttavia che solo quando noi facciamo la nostra parte gli altri fanno la loro. L’America deve continuare a fare da guida”.
Un documento che, già ad una prima analisi, evidenzia elementi di continuità con l’impostazione precedente anche se ai toni trionfalistici si preferisce una maggiore cautela (soprattutto nella strategia di preemption) ed un minor attivismo offensivo.
Il documento si compone di una lettera del Presidente, un preambolo introduttivo, nove capitoli ed una conclusione. Ogni capitolo è strutturato con brevi richiami alla NSS 2002, un paragrafo inerente ai successi ottenuti ed uno sulle future sfide da affrontare e le linee - guida da percorrere per conseguire gli obiettivi individuati.
Nel capitolo “Aspirazioni fondamentali per la dignità umana” si elencano i successi ottenuti, in particolare in Afghanistan e Iraq. Vengono quindi indicate le tirannie (Corea del nord, Iran, Siria, Cuba, Bielorussia, Burma, Zimbabwe) e gli Stati canaglia (Siria e Iran). Nella specifica trattazione sul terrorismo si analizza il contributo dei Paesi islamici che si sono recentemente allineati alla politica statunitense (Giordania, Marocco ed Indonesia) e quelli già alleati subito dopo gli attentati dell’11 settembre (Pakistan e Arabia Saudita)(23). Oltre ad un doveroso riferimento ai conflitti in Iraq ed Afghanistan, vengono analizzate altre aree di crisi omettendo però di trattare problematiche attinenti alla Cecenia ed al Caucaso.
Per risolvere le conflittualità sulla scena internazionale, l’Amministrazione Bush prevede tre fasi: “Prevenzione e soluzione del conflitto; intervento nel conflitto; stabilizzazione post conflitto e ricostruzione”. Con riferimento a quest’ultimo profilo viene comunicata la creazione dell’ “Ufficio del coordinatore per la ricostruzione e la stabilizzazione” all’interno del Dipartimento di Stato. In relazione, invece, all’apporto dato alle operazioni di pace da Stati “volenterosi” e dalla NATO nel documento si sottolinea che:
-  “…recenti esperienze hanno evidenziato che la comunità internazionale non ha sufficienti forze militari di elevata qualità addestrate e capaci di condurre queste operazioni di pace…”;
-  l’amministrazione Bush, con riguardo alla NATO,“…sta lavorando per migliorare la capacità degli Stati di intervenire in situazioni di conflitto..”.
Particolarmente forte il giudizio negativo sull’Iran e la Corea del Nord(24), contenuto nel capitolo in cui sono trattate le armi di distruzione di massa (Weapon of Mass Destruction - WMD), nella cui parte conclusiva si richiama la strategia di preemption(25).
Il documento dedica poco spazio all’Europa mentre diversi dubbi e preoccupazioni vengono avanzate sulla politica russa in merito ad “…una diminuzione nell’impegno verso le libertà e le istituzioni democratiche...”(26).
Un apposito capitolo è poi dedicato alla trasformazione delle istituzioni americane nel comparto sicurezza (Dipartimento della sicurezza interna, Comunità intelligence e Dipartimento della Difesa) e soltanto un accenno (incremento delle forze per operazioni speciali ed investimenti in capacità convenzionali avanzate) è riservato alle Forze Armate.
IIn relazione all’Onu si auspicano “riforme significative” che garantiscano “..il miglioramento delle capacità dell’Onu e delle organizzazioni regionali di costituire per le operazioni di pace unità militari e di forze dell’ordine bene addestrate, di rapido schieramento e sostenibili”. L’orientamento dell’Amministrazione Bush verso l’Onu e le altre organizzazioni regionali è ben sintetizzato dalla seguente frase, (inerente lo tsunami del 2004): “Le istituzioni internazionali oggi esistenti hanno un ruolo da svolgere, ma in molti casi le coalizioni dei volonterosi possono essere in grado di rispondere in modo più tempestivo e creativo”.
Anche se la conclusione del documento (L’America deve guidare coi fatti così come con l’esempio) è analoga a quella della NSS 2002 (L’America deve continuare a fare da guida), si ritiene, in ultima analisi, che la politica estera presentata con la NSS 2006 sia orientata a maggior prudenza e difensivismo rispetto a quella del 2002.

5. Conclusioni
Pur non giungendo a conclusioni catastrofiche(27) né ad impietosi giudizi di merito sul primato di un sistema multipolare o bipolare sull’attuale unipolarismo, non possono sfuggire le difficoltà attuali in cui si dibatte la Comunità internazionale tra le quali si ricordano:
-  l’incertezza sulle norme internazionali relative al ricorso alla forza da parte degli Stati;
-  la crescita di aree di instabilità e la nascita di nuovi gravi conflitti di natura asimmetrica;
-  la scarsa efficacia (purtroppo) delle misure adottate per combattere il terrorismo internazionale a causa di permanenti divergenze tra numerosi Stati;
-  l’affanno degli USA e delle Potenze Alleate nell’individuare ed attuare un’exit strategy adeguata per l’Iraq e l’Afghanistan;
-  il difficile dialogo tra gli USA ed i nuovi ed i vecchi possibili alleati e/o “competitori globali” (Russia, Cina, India, Unione Europea).
In un periodo di continue trasformazioni è quindi auspicabile un serio rafforzamento delle principali organizzazioni coinvolte nel mantenimento della sicurezza internazionale, attraverso un processo che coinvolga in primis le Nazioni Unite e le altre organizzazioni regionali e conduca gli USA a mutare atteggiamento circa la “supremazia delle Coalizioni dei Volenterosi sulle Istituzioni Internazionali” sostenuta nella National Security Strategy 2006. In tal modo terminologie quali mutually reinforcing institutions, interlocking instituctions, approccio sinergico e condizioni di reciprocità potranno spodestare l’isolazionismo, l’unilateralismo, il fondamentalismo e la guerra preventiva, favorendo altresì l’individuazione e l’attuazione di una gamma diversificata di soluzioni mirate e politicamente sorrette dalla massima condivisione possibile; soluzioni da ricercare non solo tra civiltà e Paesi diversi ma anche al loro interno.


Approfondimenti

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(1) - Tra il 1989 ed il 1990, con il collasso della struttura del sistema internazionale bipolare si aprì il dibattito su quali potessero essere gli scenari futuri. Un quesito che suscitò e suscita tuttora risposte differenti:
- alcuni studiosi europei hanno sostenuto che la fine di tale sistema avrebbe condotto comunque ad un “naturale” ritorno al multipolarismo;
- un’altra corrente, affermatasi soprattutto in ambito statunitense, ha concluso che si sarebbe creata una sorta di unipolarismo “per sottrazione”, non programmato e dominato dalla superpotenza uscita vincitrice dalla guerra fredda;
- altri ancora, invece, hanno ritenuto che il sistema sarebbe diventato multipolare gradualmente, in base alla convinzione che la fine del sistema bipolare era un periodo simile a quelli di dopoguerra sia sotto il profilo economico sia sotto quello ideologico;
- infine, Samuel P. Huntington, coniando un neologismo, ha individuato l’affermarsi di un sistema “unimultipolare”, con la convivenza tra unipolarismo e multipolarismo; gli USA, secondo tale teoria, per esercitare il potere che detengono in modo quasi esclusivo, devono avvalersi dei Paesi alleati. In effetti la preponderante superiorità militare americana è oggettiva ma non infinita e molti alleati possono fornire contributi davvero significativi, soprattutto in aree specialistiche dove l’aspetto quantitativo può essere secondario. Pur volendo sorvolare sui contributi militari diretti, gli USA sono comunque dipendenti da altri paesi per esigenze connesse con basi, sorvolo, accesso, e solitamente anche per supporti più diretti, come intelligence, cooperazione politico-economica e gestione del dopoguerra.
Nessuna però delle citate ipotesi aveva previsto dei connotati di violenza terroristica così diffusa e diversificata nell’attuale scenario mondiale. La delineata struttura unipolare del contesto internazionale non favorisce, inoltre, una definizione internazionalmente condivisa di terrorismo, determinandone, invece, una differente percezione tra le due sponde dell’Atlantico e tra gli stessi europei.
(2) - In particolare, nella recente trasformazione/evoluzione delle organizzazioni internazionali, per le quali la guerra al terrorismo è ormai assurta ad assoluta priorità, si sottolineano i seguenti momenti storici:
- la caduta del muro di Berlino con il conseguente, già richiamato, venir meno di un sistema immutato per oltre 40 anni che ha ingenerato, nelle organizzazioni in parola, la necessità di una nuova dimensione del concetto di sicurezza, intesa non più come statica difesa territoriale ma in un’ottica dinamica. Ecco quindi la propensione a dotarsi di capacità di proiezione esterna ed il successo di processi di allargamento di talune organizzazioni internazionali, quali la NATO e l’Unione Europea (tra i cui membri vi sono numerose sovrapposizioni), oltre a sempre più intense attività di partenariato;
- gli attentati dell’11 settembre che hanno dimostrato come il terrorismo, considerato fino ad allora soltanto come un rischio, si sia trasformato in una vera e propria minaccia;
- la guerra in Iraq, che ha comportato un acceso confronto tra grandi e medie potenze ed un certo riallineamento delle organizzazioni internazionali.
(3) - Riteniamo sia inesatto parlare di “internazionale del terrore”. Esistono, infatti, solo eventuali forme di collaborazione e cointeressenze, in quanto le situazioni ambientali, i gruppi ed i fini sono comunque molteplici e diversi.
(4) - Tra i principali e più autorevoli esponenti di tale orientamento in campo nazionale si ricorda Fabrizio W. Luciolli, Segretario Generale del Comitato Atlantico Italiano, ente che svolge da cinquanta anni un’attività di studio, formazione ed informazione, sui temi di politica estera, sicurezza ed economia internazionale, relativi alla Alleanza Atlantica. Per lo svolgimento dei propri compiti il Comitato Atlantico Italiano promuove una variegata gamma di attività, in ambito sia nazionale sia internazionale. Il Comitato Atlantico Italiano assicura la presenza dell’Italia in seno all’Atlantic Treaty Association (ATA). Tale organismo internazionale ha assunto sempre maggiore rilevanza e nuovi compiti, con l’associazione ad esso dei Comitati Atlantici dei Paesi firmatari della Partnership for Peace.
(5) - A livello puramente dottrinale, attualmente, vi sono diverse ed originali posizioni circa l’evolversi delle minacce terroristiche nel contesto unipolare, tra cui ricordiamo:
- il citato Huntington che, nell’opera Scontro di civiltà, parla di un terrorismo difficilmente contenibile;
- Francis Fukuyama che, al contrario, nel libro La fine della storia, si mostra ottimista sul successo della lotta al terrorismo;
- Martin Van Creveld che, infine, nel testo Transformation of war, pone l’accento sulla presenza di conflitti asimmetrici.
(6) - In base ad un approccio meramente empirico, nel terrorismo contemporaneo si individua una forma di violenza criminale non convenzionale, con finalità politiche o politico-confessionali, posta in essere, mediante strutture e modalità clandestine, da aggregazioni sub-nazionali con o senza l’appoggio di uno Stato. Nel senso: Vittorfranco Pisano, Colonnello (ris.) di polizia militare degli Stati Uniti, autore di numerosi trattati sul terrorismo tra cui si ricorda: Il neo-terrorismo suoi connotati e conseguenti strategie di prevenzione e contenimento, pubblicazione della collana Ce.Mi.S.S. (Centro militare di studi strategici), Roma; “Terrorismo classico e neoterrorismo”, società Globale, Roma 1999; “Introduzione al Terrorismo Contemporaneo”, Sallustiana, Roma, 2^ edizione aggiornata, 1998.
(7) - L’efficacia di molti atti terroristici nella recente storia del ’900 è un dato di fatto: lo scoppio della I guerra mondiale e gli attacchi alle popolazioni civili durante la II guerra mondiale ne sono la riprova (volendoci limitare, a titolo di esempio, ad episodi particolarmente eclatanti). Ecco quindi la forza di strutture complesse ed articolate sottostanti ad ogni atto terroristico, consapevoli che infondere il terrore tra la popolazione civile possa avere un’efficacia enorme nel perseguimento dei propri fini ultimi. Si pensi anche all’attentato di Madrid dell’11 marzo 2004 che ha causato, secondo molti, anche la caduta del governo Aznar (che ha poi ritirato il contingente spagnolo dal conflitto iracheno)a favore di Zapatero. Per altri, invece, un collegamento causa-effetto tra l’attentato ed i risultati elettorali non ci sarebbe stato, essendo invece stato determinante l’atteggiamento imprudente di Aznar nell’attribuire l’attentato all’ETA: anche in tal caso non si può tuttavia negare che nell’opinione pubblica si sia radicata l’idea di uno stretto collegamento fra i due eventi e che il ritiro delle truppe sia stata una conseguenza voluta dalla strategia degli attentatori.
(8) - Tra i sostenitori di tale approccio il citato Vittorfranco Pisano.
(9) - Considerazione di John Lewis Gaddis in Attacco a sorpresa e sicurezza: le strategie degli Stati Uniti, 2005 V&P Milano. Professore a Yale in Storia e Scienza politica, John Lewis Gaddis è tra i maggiori storici della Guerra fredda ed uno dei più noti esperti di politica internazionale. Tra le sue opere: The United States and the Origins of the Cold War (1972), Strategies of Containment: A Critical Appraisal of Postwar American National Security (1982), The Long Peace: Inquiries into the History of the Cold War (1987), We Now Know: Rethinking Cold War History (1997), The Landscape of History: How Historians Map the Past (2002).
(10) - Negli anni ’90 il principale alleato dell’America era la NATO. Dieci anni dopo agli USA si erano avvicinati alcuni Paesi prima appartenenti al Patto di Varsavia mentre diverse potenze, medio-grandi, rimanevano ancora non allineate. La Russia e la Cina non si mostravano particolarmente favorevoli all’unipolarismo di matrice americana ed India e Pakistan restavano ancorate ai propri dissidi storici. Dopo l’11 settembre il Pakistan e l’India si sono allineati agli USA (l’India ha anche consentito l’uso di proprie basi ed il sorvolo del territorio); la Russia si è avvicinata alla politica estera degli Stati Uniti per una coincidenza di interessi nella lotta contro il terrorismo islamico (di qui un ruolo maggiore della Russia nella NATO); anche la Cina, per interessi coincidenti con gli Stati Uniti nella lotta al radicalismo musulmano, ha mutato la propria politica di competizione con gli USA nel Pacifico.
(11) - Da non sottovalutare la possibilità che gli attentati alle Torri Gemelle possano determinare effetti negativi sulla lotta alla proliferazione delle armi di distruzione di massa; i cosiddetti rogue states potrebbero cercare di procurarsi tali armi per poter dissuadere gli USA, minacciando i loro alleati e ponendo così in crisi l’attuale sistema di alleanze (ci riferiamo alla politica della Corea del Nord e, per certi aspetti, dell’Iran). Un radicale cambiamento sembra però prospettarsi da parte del regime di Pyongyang che ha confermato la firma dell’accordo raggiunto a Pechino il 12 febbraio 2007 per porre fine al programma nucleare militare che il 9 ottobre 2006 portò al primo test atomico sotterraneo. La Corea del Nord si dice quindi pronta a rinunciare al proprio arsenale atomico in cambio di aiuti energetici: accettando di fermare il reattore di Yongbyon e di fornire una lista delle sue strutture nucleari, ha chiesto che ogni anno gli Usa e altri quattro Paesi le assicurino due milioni di tonnellate di combustibile per un valore di 600 milioni di dollari ed una fornitura di 2.000 megawatt di elettricità.
(12) - Ci si chiede se oggi si sia tornati all’antico sistema internazionale in cui le controversie si risolvevano ricorrendo “normalmente” all’uso della forza da parte di qualsiasi Stato sovrano, oppure in una situazione nella quale soltanto i “paesi democratici” possano ricorrere legittimamente all’uso della forza mentre i soggetti non democratici (gli Stati canaglia) non ne hanno diritto. Si pensi poi alla c.d. “guerra infinita” con cui si indica un conflitto sempre presente; in effetti, l’attuale difficoltà di distinguere tra stato di guerra e di pace configura una situazione ancora più difficile rispetto a quanto avvenuto nel corso del ’900. L’attuale morfologia della guerra non è certamente clausevitziana in quanto manca la tradizionale contrapposizione tra un attaccante ed un difensore: ci sono infatti esclusivamente due attaccanti. Una guerra, quindi, senza regole certe che segue ad un’altra guerra morfologicamente anomala in cui c’erano due difensori: la guerra fredda.
(13) - In effetti, già la Commissione per la Sicurezza Nazionale/Ventunesimo Secolo, nel suo rapporto del 15 marzo 2001 (Rapporto Hart-Rudman), aveva previsto attacchi catastrofici sul suolo americano, senza ovviamente poter indicare modalità, tempo e luogo, ma giungendo comunque ad ipotesi impressionanti ma poco diffuse tra i media e non particolarmente apprezzate dall’amministrazione Clinton. Nessuno, quindi, forse anche per la sicurezza data dal successo ottenuto dalla strategia Usa nella Guerra Fredda, ritenne che la minaccia del terrorismo avrebbe potuto essere così attuale e sconvolgente per l’America. L’amministrazione Bush, quindi, in netto contrasto con quella precedente, ha sostenuto che l’evento di quella data abbia rappresentato la prova che gli Stati Uniti avevano “perso” 10 anni prima di cambiare la loro politica estera.
(14) - Riservare all’attuale periodo storico la citata definizione equivale ad individuare con “post-Guerra Fredda” il solo periodo che va dalla caduta del Muro di Berlino agli attentati dell’11 settembre 2001.
(15) - “Noi dobbiamo essere pronti a bloccare gli stati canaglia e i loro clienti terroristi prima che essi siano in grado di minacciare o di usare le armi di sterminio di massa contro gli Stati Uniti e i loro alleati”. Discorso del Presidente Bush, West Point, New York, 1° giugno 2002.
(16) - “La politica della deterrenza è stata una difesa efficace. Ma la deterrenza basata solo sulla minaccia della ritorsione è meno praticabile contro i leader degli stati canaglia più pronti a rischiare, a giocare con le vite dei loro popoli e con la ricchezza delle loro nazioni. L’incapacità di scoraggiare il potenziale aggressore, l’immediatezza delle minacce odierne e la vastità dei danni potenziali che può causare la scelta delle armi da parte del nostro nemico, non permette tale alternativa. Non possiamo permettere ai nostri nemici di colpire per primi”. Presidente Bush, West Point, New York, 1° giugno 2002.
(17) - “Sebbene il nostro obiettivo sia di proteggere l’America, sappiamo che per sconfiggere il terrorismo in un mondo globalizzato abbiamo bisogno del sostegno dei nostri alleati e amici. Ovunque sia possibile gli Stati Uniti si appoggeranno alle organizzazioni regionali e alle autorità statali per rispettare i propri impegni di lotta al terrorismo”. Presidente Bush, Washington, D.C (The National Cathedral) 14 settembre 2001.
(18) - Proprio grazie all’esperienza dei Balcani, con Clinton, ed anche in Europa, si avvia il ripensamento del problema della stabilità. Gradualmente, si è diffusa l’idea che la stabilità si possa ottenere solo promovendo i mutamenti necessari a favorirla. Dopo l’11 settembre il principio che Clinton aveva adottato per l’intervento nei Balcani è diventato un principio generale: se si vuole garantire l’ordine internazionale, bisogna cambiare ciò che non funziona nelle diverse regioni, intervenire sugli attori regionali che possono creare problemi. Questa idea-guida per l’intervento nei Balcani non sembra al momento vincente in Medio Oriente, proprio per la disomogeneità del contesto internazionale, nel quale non tutte le regioni geopolitiche hanno analoghe caratteristiche.
(19) - “Gli esperti e i giuristi internazionali spesso condizionavano la legittimità della prevenzione all’esistenza di un imminente pericolo - il più delle volte una visibile mobilitazione di eserciti, flotte e forze aeree pronte all’attacco”. Presidente Bush, West Point, New York, 1° giugno 2002.
(20) - “Maggiore è la minaccia, maggiore è il rischio dell’inattività - e più impellenti le argomentazioni in favore di un’azione preventiva di difesa, pur in presenza di un’incertezza riguardo al tempo e al luogo dell’attacco nemico. Per anticipare o impedire simili atti ostili da parte dei nostri avversari, gli Stati Uniti, se necessario, agiranno preventivamente”. Presidente Bush, West Point, New York, 1° giugno 2002.
(21) - Affermare che il consenso internazionale all’uso della forza sia di rilevante importanza, non necessariamente significa che la legittimazione a tali azioni di forza derivi unicamente da un atto formale delle Nazioni Unite. Anche se una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza non è, quindi, una conditio sine qua non per legittimare l’uso della forza militare, si ritiene che la stessa vada comunque perseguita per tentare di portare certezze interpretative tra le norme del diritto internazionale.
(22) - “Dobbiamo adattare il concetto di pericolo imminente alle capacità e agli obiettivi dei nemici attuali. Gli stati canaglia e i terroristi non cercano di attaccarci usando i mezzi convenzionali. Sanno che così fallirebbero. Piuttosto fanno affidamento su atti di terrorismo e sull’uso potenziale di armi di sterminio di massa, armi che possono nascondere facilmente, trasportare segretamente e utilizzare senza preavviso”. Presidente Bush, West Point, New York, 1° giugno 2002.
(23) - Anche nella parte dedicata all’Asia orientale sono espressamente indicati i Paesi alleati: Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore e Thailandia. Alla Cina viene invece addebitata la colpa di comportarsi, sulla scena internazionale, in modo non propriamente collaborativo “...continuando l’espansione militare in modo non trasparente...”.
(24) - “Nel frattempo continueremo a prendere tutte le misure necessarie per proteggere la nostra sicurezza nazionale ed economica contro gli effetti negativi del loro cattivo comportamento”. NSS 2006.
(25) - “Prendere provvedimenti non comporta necessariamente l’uso della forza militare. […] Se necessario, tuttavia, sulla base dei principi sempre validi dell’autodifesa, non escludiamo l’uso della forza prima che venga portato un attacco, anche se rimanesse l’incertezza in merito al tempo ed al luogo dell’attacco nemico”. NSS 2006.
(26) - Dell’ argomento si è interessato anche il Dipartimento di Stato nel suo “Country Reports on Human Rights Practices 2005” dell’ 8 marzo 2006. Il “US Council on Foreign Relations”, seppur in modo autonomo dall’Amministrazione Bush, ha invece pubblicato, a tal proposito, il documento “La direzione sbagliata della Russia: cosa possono e devono fare gli Usa”. A tal proposito si sottolinea che il Dipartimento di Stato americano ha inoltre recentemente pubblicato il “Piano Strategico della politica estera per gli anni 2007-2012”che illustra, appunto, le linee-guida della politica estera degli Stati Uniti nei prossimi cinque anni. Buona parte del documento, che riguarda gli obiettivi diplomatici americani nell’area della ex URSS, evidenzia la necessità di contrapporsi ad un “comportamento negativo” della Russia per le sue continue ingerenze e pressioni su Stati ex-sovietici. Attraverso aspre critiche sulla situazione dei diritti democratici e delle libertà in Russia, il Dipartimento di Stato cerca di spiegare perché l’azione americana in difesa della democrazia non si concretizzi in una ingerenza indebita in questioni interne di altri Stati anche se a migliaia di chilometri dal territorio americano. Un braccio di ferro tra le due potenze aggravato dai contrasti per acquisire maggiori influenze su Stati quali la Georgia, l’Ukraina, la Moldova e l’Azerbaijan, in bilico tra le Istituzioni euro-atlantiche e la Comunità degli Stati Indipendenti.
(27) - Su posizioni estreme e di condanna alla politica estera americana, tra gli altri, T. Todorov che nel libro “Il nuovo disordine mondiale. Riflessioni di un cittadino europeo”, Garzanti, Milano 2003, prende posizione rispetto alla “guerra preventiva” in Iraq, alle dottrine e ai comportamenti imperiali degli Stati Uniti ed al ruolo dell’Europa. Lo scrittore contesta, quindi, l’utilizzo della retorica politica contemporanea: “Guerra umanitaria”, “imperialismo liberale”, “nazionalismo universalista”, “lotta del bene contro il male”, sono secondo Todorov soltanto alcune delle espressioni coniate dai sostenitori della politica americana che vogliono imporre al mondo un Bene assoluto che non si identifica più in una divinità ma nella Democrazia liberale (di qui il termine “neofondamentalismo americano”).