Le pene accessorie e gli effetti extrapenali del giudicato

Carlo Polidori (*)


1. Rilevanza della vicenda penale nel rapporto di pubblico impiego del personale militare

A distanza di oltre dieci anni dalla storica sentenza della Corte Costituzionale 14 ottobre 1988, n. 971, e dall’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale gli effetti della vicenda penale sul rapporto di pubblico impiego del personale militare costituiscono ancora un tema di grande attualità, sia in virtù di recenti(1) e di preannunciati(2) interventi normativi, sia in ragione dei problemi e delle incertezze applicative della materia e delle conseguenti pronunce della Corte Costituzionale, della Corte di Cassazione e dei Giudici amministrativi.

Tali effetti variano, com’è noto, in funzione dello stato del procedimento penale e si traducono nell’obbligo, o talvolta nella facoltà, per l’amministrazione di adottare provvedimenti amministrativi destinati ad incidere sensibilmente su diversi aspetti della sfera giuridica del militare. In questa relazione saranno analizzati gli effetti della sentenza penale sull’esercizio dell’azione disciplinare, sia con riferimento all’efficacia di giudicato della sentenza penale nel procedimento disciplinare, sia con riferimento alle conseguenze derivanti dall’applicazione di pene accessorie comuni e militari. In particolare, si procederà dapprima ad un inquadramento sistematico della materia e all’esame della sua evoluzione normativa; quindi saranno evidenziati i più rilevanti problemi applicativi; infine si accennerà ai futuri e auspicabili sviluppi del quadro normativo derivanti dall’approvazione della legge delega per la revisione delle leggi penali militari di pace e di guerra.

Non sarà invece oggetto di esame né il problema dell’esistenza o meno dell’obbligo di sospendere il procedimento disciplinare già avviato qualora il militare venga sottoposto a procedimento penale per gli stessi fatti, né la materia dei termini entro i quali deve essere iniziato e concluso il procedimento disciplinare relativo a fatti che abbiano costituito oggetto di un procedimento penale.


2. Il principio di reciproca autonomia tra reato e illecito disciplinare, sotto il profilo sia sostanziale sia procedimentale, e le relative eccezioni

Com’è noto, l’illecito disciplinare costituisce una specie dell’illecito amministrativo. Infatti l’illecito disciplinare, pur concretizzandosi dosi al pari di ogni altro illecito amministrativo in una trasgressione che dà luogo, per scelta del legislatore, alla irrogazione, da parte dei pubblici poteri, di quella tipica forma di sanzione definita appunto amministrativa, si distingue dagli altri illeciti amministrativi perché la trasgressione non riguarda un dovere comune alla generalità degli amministrati, ma categorie di soggetti nei confronti dei quali l’amministrazione si trova in una posizione di supremazia speciale. Quanto alla distinzione tra illecito disciplinare e reato, è generalmente accettata la tesi secondo la quale occorre invece aver riguardo al tipo di sanzione comminata dal legislatore per la trasgressione del comando o del divieto. In particolare, riguardo alle trasgressioni commesse dal militare, si deve evidenziare che laddove al fatto consegua una delle sanzioni previste dall’art. 17 c.p. o dall’art. 22 c.p.m.p. si è in presenza di un reato, mentre laddove al fatto consegua una sanzione disciplinare, di stato o di corpo, si è in presenza di un illecito disciplinare.

A tale distinzione corrispondono le diverse finalità del potere giurisdizionale penale e di quello disciplinare. Il primo, quale espressione della potestà punitiva statuale, si esplica con riferimento all’ordinamento generale ed è finalizzato a prevenire e reprimere fatti considerati socialmente pericolosi, idonei a sovvertire lo stesso assetto della società ed i rapporti tra i cittadini. Il secondo, invece, quale espressione del potere organizzativo della pubblica amministrazione, è finalizzato a realizzare i principi costituzionali fissati nell’art. 97 cost., esaurendosi così all’interno della stessa compagine amministrativa. Può quindi verificarsi che un fatto penalmente rilevante abbia effetti e riflessi anche nell’ordinamento della pubblica amministrazione, essendo riferibile ad un soggetto alla stessa legato da un rapporto di impiego.

Pertanto lo stesso fatto può essere oggetto sia delle valutazioni dell’autorità giudiziaria, sia delle valutazioni dell’amministrazione, per le eventuali conseguenze che abbia potuto avere nel suo ambito. Le considerazioni che precedono assumono uno speciale rilievo ove si passi ad esaminare i rapporti tra illecito disciplinare e reato militare, perché confermano l’impossibilità di configurare un sistema unitario degli illeciti propri del militare, nonostante la previsione dell’articolo 38 c.p.m.p., secondo il quale “le violazioni dei doveri del servizio e della disciplina militare, non costituenti reato, sono prevedute dalla legge ovvero dai regolamenti militari approvati con decreto del Presidente della Repubblica, e sono punite con le sanzioni in essi stabilite”. Infatti la reciproca autonomia tra l’illecito disciplinare e l’illecito penale risulta ormai chiaramente affermata dall’art. 65, comma 7, del d.P.R. 18 luglio 1986, n. 545, secondo il quale con la sanzione disciplinare della consegna di rigore possono essere puniti sia “fatti previsti come reato, per i quali il comandante di corpo non ritenga di chiedere il procedimento, nell’ambito delle facoltà concessegli dalla legge penale”, sia “fatti che abbiano determinato un giudizio penale a seguito del quale sia instaurato un procedimento disciplinare”.

La reciproca autonomia tra l’illecito disciplinare e l’illecito penale non determina tuttavia una totale indipendenza tra l’azione penale e l’azione disciplinare. Infatti la regola generale dell’autonomo accertamento e dell’autonoma valutazione del fatto da parte del giudice penale, ordinario o militare, e dell’autorità militare subisce significative eccezioni. Innanzi tutto, per i reati puniti con la pena della reclusione militare non superiore nel massimo a sei mesi l’art. 260 c.p.m.p. prevede una particolare condizione di procedibilità: la richiesta di procedimento da parte del comandante di corpo da cui dipende il militare. In tal caso l’azione penale può risultare paralizzata dalle valutazioni della stessa autorità militare cui l’art. 14, comma 6, della legge 11 luglio 1978, n. 382, attribuisce la competenza ad infliggere la consegna di rigore. Ben più rilevanti appaiono, tuttavia, i casi in cui l’accertamento e le valutazioni di competenza dell’autorità militare sono condizionate dall’esito del giudizio penale e che costituiscono l’oggetto dei prossimi paragrafi. Trattasi infatti dei casi in cui la condanna in sede penale comporta l’applicazione di una pena accessoria, comune o militare, determinando automaticamente la perdita del grado, e dei casi in cui la sentenza penale assume efficacia di giudicato nel procedimento disciplinare, condizionando l’accertamento del fatto da parte dell’autorità militare.


3. Evoluzione della disciplina normativa dei rapporti tra procedimento penale e disciplinare, ovvero ciò che resta del principio dell’autonomo accertamento e dell’autonoma valutazione del fatto in sede disciplinare

La storia recente dei rapporti tra procedimento penale e disciplinare può essere suddivisa in tre fasi. La prima fase comprende i significativi interventi del legislatore e della Corte Costituzionale che hanno portato all’affermazione del principio dell’autonomo accertamento e dell’autonoma valutazione del fatto da parte del giudice penale e dell’autorità cui compete l’esercizio del potere disciplinare. In particolare, per quanto riguarda l’autonomo accertamento del fatto si deve rammentare che la legge 16 febbraio 1987, n. 81 (legge delega per il nuovo codice di procedura penale), prevede la “statuizione che la sentenza di assoluzione non pregiudica il procedimento amministrativo per responsabilità disciplinare, salvo che dalla stessa risulti che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso (principio n. 24)”.

Tale principio ha trovato attuazione nell’art. 653 c.p.p. il quale, nella sua versione originaria, disponeva che “la sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso”. L’affermazione del principio dell’autonoma valutazione del fatto si deve invece principalmente alla citata sentenza della Corte Costituzionale n. 971/1988, con la quale è stata dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 85 lett. a) del t.u. 10 gennaio 1957, n. 3 (e di altre disposizioni di analogo tenore), nella parte in cui non prevede, in luogo del provvedimento di destituzione di diritto a seguito della condanna passata in giudicato per uno dei delitti indicati dalla stessa lett. a), l’apertura e lo svolgimento del procedimento disciplinare. Peraltro, il legislatore ha prontamente recepito l’orientamento della Consulta con la legge 7 febbraio 1990, n. 19, la quale dispone, all’art. 9, che “il pubblico dipendente non può essere destituito di diritto a seguito di condanna penale. È abrogata ogni contraria disposizione di legge (comma 1)” e che “la destituzione può sempre essere inflitta all’esito del procedimento disciplinare che deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l’amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna e concluso nei successivi novanta giorni (comma 2, prima parte)”.

La seconda fase occupa l’intero arco degli anni novanta e si caratterizza, da un lato, per il ripensamento da parte del legislatore dei rapporti tra procedimento penale e disciplinare e, dall’altro, per la riaffermazione da parte della Corte Costituzionale del principio sancito con la sentenza n. 971/1988. Si deve infatti rammentare che la legge 18 gennaio 1992, n. 16, ha introdotto per tutti i pubblici dipendenti la decadenza di diritto dall’ufficio a seguito di condanna passata in giudicato per gravi reati. Tuttavia la Corte Costituzionale, a breve distanza di tempo, con la sentenza 27 aprile 1993, n. 197, ha dichiarato l’incostituzionalità della decadenza di diritto perché reintroduceva di fatto nell’ordinamento la destituzione di diritto, anche se ha puntualizzato che la sua decisione non andava ad incidere sull’ambito applicativo e sugli effetti della pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici. Inoltre, nella seconda metà degli anni novanta la Corte Costituzionale, chiamata ad occuparsi della pena accessoria militare della rimozione, prevista dagli articoli 29 e 33, comma 1, n. 2 e 3, c.p.m.p., non ha perso l’occasione per affermare nuovamente il principio dell’autonoma valutazione del fatto.

Infatti con la sentenza 17 ottobre 1996, n. 363, ha dichiarato incostituzionali l’art. 12 lett. f ) e l’art. 34, n. 7, della legge 18 ottobre 1961, n. 1168, recante “norme sullo stato giuridico dei vice brigadieri e dei militari di truppa dell’Arma dei Carabinieri”, nella parte in cui non prevedono, per la cessazione dal servizio per perdita del grado, conseguente all’applicazione della pena accessoria della rimozione, l’instaurarsi del procedimento disciplinare. La terza fase si apre con la fondamentale legge 27 marzo 2001, n. 97, che segna un nuovo ripensamento, da parte del legislatore, dei rapporti tra procedimento penale e disciplinare. Innanzi tutto il legislatore interviene sul principio dell’autonomo accertamento del fatto, modificando l’art. 653 c.p.p., che risulta oggi composto di due commi, in base ai quali “la sentenza penale irrevocabile di assoluzione ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l’imputato non lo ha commesso (comma 1)”, mentre “la sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso (comma 1 bis)”.

Assai ampie risultano quindi le limitazioni del principio dell’autonomo accertamento dei fatti, sia con riferimento alla sentenza di assoluzione perché, da un lato, ne viene estesa l’efficacia di giudicato all’accertamento dell’illiceità penale del fatto e, dall’altro, viene espunto il riferimento alla pronuncia della sentenza in seguito a dibattimento; sia con riferimento alla sentenza di condanna, perché prevedendone l’efficacia di giudicato viene attuata una decisiva inversione di rotta rispetto alle scelte del legislatore del 1987. Ancora più significativa della novella dell’art. 653 c.p.p. appare quella dell’art. 445, comma 1, c.p.p., il cui testo, a seguito della modifica introdotta dall’art. 2 della legge n. 97/2001, risulta così formulato: “La sentenza prevista dall’articolo 444 comma 2 non comporta la condanna al pagamento delle spese del procedimento né l’applicazione di pene accessorie e di misure di sicurezza, fatta eccezione della confisca nei casi previsti dall’articolo 240 comma 2 del codice penale.

Salvo quanto previsto dall’articolo 653 (il corsivo è nostro), anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, la sentenza non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi. Salve diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna”. Infatti, attraverso il rinvio all’articolo 653 c.p.p. la norma attribuisce alla sentenza di patteggiamento l’efficacia di giudicato in sede disciplinare(3). Quanto al principio dell’autonoma valutazione del fatto, il suo ambito di applicazione risulta fortemente limitato dall’introduzione della pena accessoria dell’estinzione del rapporto di impiego e di lavoro(4). In particolare, secondo l’art. 32 quinquies c.p., la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319 ter e 320, ferma restando l’applicazione delle pene accessorie dell’interdizione perpetua (art. 29 c.p.) o temporanea (art. 31 c.p.) dai pubblici uffici, importa altresì l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego nei confronti del dipendente di amministrazioni od enti pubblici, ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica. Inoltre, secondo l’articolo 3, comma 2, della legge 9 dicembre 1941, n. 1383, l’estinzione del rapporto di impiego si verifica anche nei confronti del militare della Guardia di finanza condannato per uno dei reati previsti dal primo comma dello stesso articolo(5).

Da tali disposizioni emerge con evidenza il duplice intento del legislatore di far conseguire automaticamente l’estinzione del rapporto d’impiego alla condanna per delitti che destano notevole allarme sociale senza attendere l’esito del procedimento disciplinare, da un lato, e di seguire le indicazioni formulate dalla Corte Costituzionale nella citata sentenza n. 197/1993, circa i rapporti tra la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici e la destituzione di diritto, dall’altro. Per concludere l’esame del quadro normativo in materia di rapporti tra procedimento penale e disciplinare occorre far cenno alla legge 12 giugno 2003, n. 134, recante “modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti”, il cui art. 2 ha nuovamente modificato il testo dell’art. 445 c.p.p., al fine di adeguare la disciplina degli effetti del patteggiamento alla nuova disciplina dei limiti entro i quali l’art. 444 consente il ricorso a tale procedimento speciale(6).

In particolare, secondo il nuovo art. 445, comma 1, la sentenza di patteggiamento, “quando la pena irrogata non superi i due anni di pena detentiva soli o congiunti a pena pecuniaria, non comporta la condanna al pagamento delle spese del procedimento né l’applicazione di pene accessorie e di misure di sicurezza, fatta eccezione della confisca nei casi previsti dall’articolo 240 del codice penale”; mentre in base al nuovo art. 445, comma 1 bis, risulta confermata la disciplina introdotta dalla legge n. 97/2001, sicché anche nell’ipotesi in cui la pena irrogata superi i due anni la sentenza di patteggiamento, “salvo quanto previsto dall’articolo 653, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi. Salve diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna”. Pertanto, in questa sede la novella introdotta dalla legge n. 134/2003, assume un particolare rilievo nella parte in cui prevede che, laddove la pena detentiva patteggiata superi il limite dei due anni, viene meno il beneficio della non applicazione delle pene accessorie.


4. Efficacia della sentenza penale nel procedimento disciplinare: la sentenza di assoluzione

Nel paragrafo precedente si è evidenziato che la prima limitazione dell’autonomia dell’autorità disciplinare nell’accertamento del fatto deriva dall’art. 653, comma 1, c.p.p. ed è costituita dall’esistenza di una sentenza di assoluzione pronunciata nei confronti del dipendente per gli stessi fatti contestati in sede disciplinare. In realtà, quando l’assoluzione è stata pronunciata perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso, l’efficacia di giudicato della sentenza penale va intesa come impedimento assoluto per l’amministrazione di appartenenza di avviare il procedimento disciplinare. Tuttavia, al riguardo occorre evidenziare che, secondo un orientamento giurisprudenziale(7), tale preclusione non riguarda i casi in cui l’assoluzione sia determinata, ai sensi dell’art. 530, comma 2, c.p.p., dalla mancanza di sufficienti elementi di prova della commissione del fatto o della sua attribuibilità all’imputato.

Infatti la preclusione dell’azione disciplinare trova il suo presupposto non già nella formula assolutoria in sé considerata, bensì nella circostanza che, essendo la responsabilità disciplinare fondata sugli stessi fatti sottoposti alla cognizione del giudice penale, questi abbia compiutamente accertato che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso. Diverse considerazioni s’impongono invece per la nuova formula assolutoria introdotta nell’art. 653 c.p.p. dalla legge n. 97/2001, anche perché l’art. 530 c.p.p. non prevede l’assoluzione perché il fatto “non costituisce illecito penale”. In questo caso, secondo la dottrina, l’efficacia di giudicato della sentenza penale riguarda esclusivamente il fatto nella sua realtà fenomenica, fermo restando il potere-dovere di valutare il fatto stesso sotto il profilo disciplinare. Tale impostazione ha ricevuto l’avallo dei giudici amministrativi(8), secondo i quali, la formula inserita nell’art. 653 c.p.p. ha il solo scopo di obbligare a ritenere avvenuti fatti e situazioni oggetto di accertamento da parte del giudice penale anche nell’ipotesi in cui il procedimento penale sia sfociato in una sentenza assolutoria “perché il fatto non costituisce reato” o “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”.

Quanto all’ulteriore modifica apportata dalla legge n. 97/2001 è sufficiente evidenziare che, essendo stato espunto dall’art. 653 c.p.p. il riferimento alla pronuncia della sentenza in seguito a dibattimento, deve essere riconosciuta efficacia extrapenale anche alla sentenza di assoluzione pronunciata all’esito del giudizio abbreviato (art. 438 e ss. c.p.p.). Infine, si può evidenziare che, laddove l’imputato venga prosciolto ai sensi dell’art. 529 c.p.p. (sentenza di non doversi procedere) o dell’art. 531 c.p.p. (dichiarazione di estinzione del reato), si riespande il potere-dovere della pubblica amministrazione di accertare autonomamente il fatto in sede disciplinare.


5. Segue: la sentenza di condanna

Mentre l’efficacia di giudicato della sentenza di assoluzione costituisce, come già evidenziato, oggetto di una specifica previsione nella legge delega per il nuovo codice di procedura penale, l’efficacia di giudicato della sentenza di condanna rappresenta una novità, salutata con favore dalla dottrina atteso che, in mancanza di una specifica disciplina normativa, la rilevanza dell’accertamento svolto dal giudice penale ai fini dell’affermazione della responsabilità disciplinare aveva dato luogo a contrasti giurisprudenziali. Orbene, nel comma 1 bis dell’art. 653 è stato recepito l’orientamento(9) secondo il quale la sentenza irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel procedimento disciplinare quanto all’accertamento dei fatti materiali che sono stati oggetto del giudizio penale; sicché, a fronte di condanna in sede penale, l’autorità disciplinare, da un lato, non ha alcun dovere istruttorio che imponga di procedere ad un’autonoma ricostruzione del fatto e, dall’altro, non può affermare l’insussistenza del fatto per il quale il dipendente è stato condannato in sede penale. Poste tali premesse, rimane solo da evidenziare che l’autorità disciplinare deve comunque compiere una valutazione discrezionale del fatto accertato in sede penale, non essendo sufficiente, per l’affermazione la responsabilità disciplinare, un acritico recepimento, del contenuto della sentenza, giacché la sanzione disciplinare non può essere comminata come mera conseguenza della condanna.


6. Segue: la sentenza di patteggiamento

Il rinvio all’art. 653 c.p.p. introdotto nell’art. 445 c.p.p. dalla legge n. 97/2001 determina, come già evidenziato, che anche la sentenza di patteggiamento ha efficacia di giudicato in sede disciplinare. Tuttavia, a differenza dell’introduzione del comma 1 bis nell’art. 653, questa novella ha destato serrate critiche da parte della dottrina, a causa del particolare modo di atteggiarsi dell’affermazione della responsabilità penale nella sentenza di patteggiamento e dell’impossibilità di identificare tout court tale pronuncia con una sentenza di condanna. Infatti, a differenza di quanto accade nel caso di condanna pronunciata in sede dibattimentale o all’esito di un giudizio abbreviato, in caso di patteggiamento si ritiene necessario distinguere il profilo relativo all’affermazione di responsabilità, ossia il dispositivo della sentenza, da quello relativo all’accertamento della responsabilità, perché la motivazione può risultare in concreto più o meno esaustiva a seconda della maggiore o minore completezza del materiale probatorio acquisito, che dipende a sua volta dal modo in cui sono state svolte le indagini dal pubblico ministero, e dallo stadio del procedimento in cui la richiesta di applicazione della pena è stata formulata.

Proprio la frequente mancanza di un esaustivo accertamento giurisdizionale della responsabilità dell’imputato in ordine al reato ascrittogli, da un lato, e l’impossibilità di considerare la scelta del patteggiamento come una implicita ammissione di colpevolezza, dall’altro, hanno indotto la prevalente giurisprudenza( 10) formatasi prima della legge n. 97/2001 ad affermare che l’amministrazione in nessun caso può acriticamente recepire l’affermazione di responsabilità contenuta nella sentenza di patteggiamento. Piuttosto, essa deve valutare l’accertamento di responsabilità compiuto dal giudice penale e può utilizzarlo in quanto tale e come unica fonte di convincimento solo se detto accertamento appaia completo. In caso contrario, deve compiere tutti gli accertamenti che il caso richiede. Si tratta quindi di stabilire il reale significato dell’art. 445 c.p.p. nella parte in cui fa salva l’applicazione dell’art. 653 c.p.p. in caso di patteggiamento. Si deve innanzi tutto escludere che attribuire alla sentenza di patteggiamento efficacia di giudicato nel procedimento disciplinare significhi equiparare, seppure soltanto a fini disciplinari, la scelta del patteggiamento ad una ammissione di responsabilità. In altri termini, non pare corretto attribuire efficacia di giudicato all’affermazione di penale responsabilità che, come si è detto, caratterizza la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti al pari di una qualsiasi sentenza di condanna.

Infatti, così interpretata la norma risulterebbe censurabile sotto il profilo della ragionevolezza perché non si vede come una sostanziale ammissione di responsabilità possa valere solo a fini disciplinari e non anche in altri giudizi di cui sia parte il pubblico dipendente, come ad es. quello amministrativo-contabile. Si deve quindi ritenere che l’efficacia di giudicato riguardi soltanto l’accertamento dei fatti svolto dal giudice e che l’applicazione dell’art. 653 c.p.p. nel procedimento disciplinare avviato a seguito di sentenza di patteggiamento determini gli stessi effetti già esaminati in precedenza con riferimento alla sentenza di condanna. Pertanto l’autorità disciplinare, da un lato, non ha alcun dovere istruttorio che imponga di procedere ad un’autonoma ricostruzione dei fatti laddove la sentenza di patteggiamento contenga un esaustivo accertamento degli stessi e, dall’altro, non può affermare l’insussistenza dei fatti già compiutamente accertati in sede penale.

Tuttavia, nell’ipotesi assai frequente in cui la motivazione della sentenza di patteggiamento non contenga un’esaustiva ricostruzione dei fatti, riemerge il potere-dovere di compiere tutti gli accertamenti che il caso richiede. A conferma della bontà di tale soluzione interpretativa si deve evidenziare che la stessa risulta coerente con le motivazioni della sentenza della Corte Costituzionale 28 maggio 1999, n. 197, secondo la quale l’art. 9, comma 2, della legge n. 19/1990, che pone il termine perentorio di 90 giorni per la conclusione del procedimento disciplinare conseguente ad una pronuncia di condanna, non trova applicazione per i casi in cui il procedimento penale si conclude con una sentenza patteggiata, la quale non presuppone quella compiutezza nella raccolta degli elementi di prova che è tipica del rito ordinario, sicché non può escludersi che l’amministrazione debba effettuare autonomi accertamenti e che la pronuncia penale sia richiamata solo per i fatti non controversi.


7. Pene accessorie e risoluzione del rapporto d’impiego

La seconda limitazione assoluta del potere disciplinare(11) deriva, come già evidenziato, dalla condanna cui consegua l’applicazione di una pena accessoria, comune o militare, che determini automaticamente la perdita del grado. Occorre quindi evidenziare, innanzi tutto, il meccanismo attraverso il quale vengono applicate dal giudice le pene accessorie, l’attività che l’amministrazione deve porre in essere per dare esecuzione alla sentenza penale e quali siano le pene accessorie che producono l’effetto di risolvere il rapporto d’impiego con l’amministrazione. Nel prossimo paragrafo, saranno analizzati i rapporti tra le pene accessorie destitutive e la sanzione disciplinare della perdita del grado. Infine, nell’ultimo paragrafo si accennerà alle prospettive di riforma della disciplina delle pene accessorie militari.

In forza dell’articolo 20 c.p. le pene accessorie, di regola, “conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa”. L’applicazione della pena accessoria costituisce quindi prerogativa esclusiva del giudice penale, come si evince anche dall’articolo 183 disp. att. c.p.p., secondo il quale “quando alla condanna consegue di diritto una pena accessoria predeterminata dalla legge nella specie e nella durata, il pubblico ministero ne richiede l’applicazione al giudice dell’esecuzione, se non si è già provveduto con la sentenza di condanna”. L’esecuzione delle pene accessorie è invece disciplinata dagli articoli 662 c.p.p. e 411 c.p.m.p.. In base alla prima disposizione il pubblico ministero “trasmette l’estratto della sentenza di condanna agli organi di pubblica sicurezza e, occorrendo, agli altri organi interessati, indicando le pene accessorie da eseguire”. Per le pene accessorie militari l’articolo 411 c.p.m.p. specifica che “sono eseguite dalla autorità militare nei modi stabiliti dalle leggi speciali e dai regolamenti militari approvati con decreto del Presidente della Repubblica”.

Tanto premesso occorre domandarsi se, in caso di applicazione di una pena accessoria che determini automaticamente la perdita del grado e che non risulti sospesa ai sensi dell’articolo 166 c.p., sia necessario, al fine di darvi esecuzione, un provvedimento da parte dell’amministrazione e, in caso positivo, che natura abbia. Orbene, posto che la pena accessoria incide direttamente sul rapporto d’impiego, risolvendolo, l’amministrazione è vincolata ad adottare solo gli atti necessari a dare concreta esecuzione alla sentenza e, quindi, secondo la giurisprudenza( 12), essa non può far altro che disporre la cessazione dal servizio del condannato, con un provvedimento che non ha carattere né costitutivo, né discrezionale, ma è vincolato e dichiarativo del fatto che sia venuto meno lo status di pubblico dipendente. Ne consegue, da un lato, che l’amministrazione non ha l’obbligo di dare al condannato comunicazione dell’avvio del procedimento e, dall’altro, che ogni questione inerente l’esecuzione della pena accessoria deve essere sottoposta al giudice dell’esecuzione, individuato a norma dell’art. 665 c.p.p. Passando alle singole pene accessorie che producono l’effetto di risolvere il rapporto d’impiego s’impone per prima all’attenzione l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

In particolare, l’art. 28, comma 2, n. 2, c.p. dispone, tra l’altro, che l’interdizione perpetua dai pubblici uffici privi il condannato di ogni pubblico ufficio. Quanto all’ambito di applicazione, il primo comma dell’art. 29 c.p. dispone che “la condanna all’ergastolo e la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni importano l’interdizione perpetua del condannato dai pubblici uffici”, mentre il secondo comma prevede che tale pena accessoria consegua anche alla dichiarazione di abitualità o di professionalità nel delitto, ovvero di tendenza a delinquere. Inoltre, laddove l’interdizione perpetua dai pubblici uffici venga applicata nei confronti di un militare a seguito di condanna per reati previsti dalla legge penale comune, essa comporta la degradazione del condannato ai sensi dell’art. 33, comma 1, n. 1, c.p.m.p.(13). Un analogo effetto estintivo del rapporto d’impiego si verifica ove alla condanna consegua la pena accessoria prevista dall’art. 32 quinquies c.p.(14)”. Tale pena accessoria merita particolare attenzione in questa sede perché il suo ambito d’applicazione presenta taluni difetti di coordinamento, specie se si tiene conto della vigente disciplina in materia di reati contro l’amministrazione militare.

In particolare, l’articolo 317 bis c.p. prevede che la condanna per i reati di peculato e concussione importi l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, a prescindere dalla pena in concreto irrogata, sicché non si vede quale spazio applicativo residui in questi casi per la pena accessoria prevista dall’articolo 32 quinquies c.p. Inoltre, gli unici reati militari per i quali è stata introdotta(15) la pena accessoria dell’estinzione del rapporto d’impiego sono i reati propri del militare della Guardia di finanza, sicché non si comprende, ad esempio, per quale ragione, in caso di condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni, l’applicazione della pena accessoria in esame è prevista per il peculato del finanziere (art. 3, comma 2, legge n. 1383/1941), ma non per i reati di peculato militare e malversazione a danno di militare (articoli 215 e 216 c.p.m.p.). Passando alle pene accessorie militari, nessun dubbio sussiste sull’effetto estintivo del rapporto d’impiego prodotto dalla degradazione.

Infatti, in base all’art. 28, comma 1, c.p.m.p., essa “è perpetua e priva il condannato della qualità di militare e, salvo che la legge disponga altrimenti, della capacità di prestare qualunque servizio, incarico od opera per le Forze Armate dello Stato”. Quanto all’ambito di applicazione, il terzo comma dell’art. 28 c.p.m.p. prevede che tale pena accessoria consegua alla condanna all’ergastolo, alla condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni e alla dichiarazione di abitualità o di professionalità nel delitto, ovvero di tendenza a delinquere, pronunciate nei confronti del militare, per reati militari(16). Ben più complesso appare invece il problema degli effetti della pena accessoria della rimozione sul rapporto di pubblico impiego e che sarà oggetto di approfondita analisi nel prossimo paragrafo. Infatti, secondo l’articolo 29 c.p.m.p. “la rimozione si applica a tutti i militari rivestiti di un grado o appartenenti a una classe superiore all’ultima; è perpetua, priva il militare condannato del grado e lo fa discendere alla condizione di semplice soldato o di militare di ultima classe”.

Quanto all’ambito di applicazione, occorre evidenziare che la Corte Costituzionale, con la sentenza 1° giugno 1993, n. 258, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’articolo 3 cost., l’articolo 29 c.p.m.p. nella parte in cui prevede un limite differenziato per l’applicazione della pena accessoria della rimozione in caso di condanna alla reclusione militare inflitta a ufficiali e sottufficiali (pena superiore a tre anni) e in caso di condanna di militari che rivestano un grado diverso (pena superiore a un anno). Inoltre si deve ricordare che l’articolo 33 comma 1, n. 2 e n. 3, prevede i casi in cui la rimozione consegue alla condanna pronunciata per delitti previsti dalla legge penale comune.


8. Rapporti tra le pene accessorie destitutive e la sanzione disciplinare della perdita del grado

Ripercorrendo le tappe dell’evoluzione recente dei rapporti tra procedimento penale e disciplinare si è evidenziato che il legislatore attraverso l’emanazione della legge n. 19/1990 ha prontamente recepito l’orientamento della Corte Costituzionale sul divieto di destituzione di diritto a seguito di condanna penale, disponendo l’abrogazione delle disposizioni che ancora non erano cadute sotto la scure della consulta e precisando che la destituzione può sempre essere inflitta all’esito del procedimento disciplinare. Inoltre si è messo in evidenza che la stessa Corte Costituzionale ha escluso che il divieto di destituzione di diritto a seguito di condanna penale investa anche gli effetti e l’ambito applicativo della pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici. Quest’ultima affermazione vale evidentemente anche per la degradazione( 17), che produce effetti sostanzialmente corrispondenti a quelli dell’interdizione dai pubblici uffici.

Pertanto il problema dei rapporti tra le pene accessorie e la sanzione disciplinare della perdita del grado riguarda, da un lato, la pena accessoria prevista dall’articolo 32 quinquies c.p. e, dall’altro, quella prevista dall’articolo 29 c.p.m.p. Quanto all’estinzione del rapporto d’impiego, a parte i problemi relativi all’ambito di applicazione di tale pena accessoria, segnalati nel paragrafo che precede, si deve evidenziare che potrebbe essere portata all’attenzione della Corte Costituzionale per le stesse ragioni che indussero a sollevare la questione di legittimità costituzionale della decadenza dall’impiego introdotta dalla legge n. 16/1992. Si potrebbe infatti sostenere, anche in questo caso, che attraverso tale pena accessoria il legislatore sostanzialmente reintroduce nell’ordinamento la destituzione di diritto, già dichiarata incostituzionale perché impedisce di adeguare la sanzione al caso concreto, in relazione alla obiettiva gravità del fatto commesso.

Tuttavia, ove venisse sollevata una questione di legittimità costituzionale di questo tenore, ben difficilmente sarebbe accolta con favore dai giudici della Consulta, non tanto perché il legislatore nell’introdurre l’estinzione del rapporto sotto forma di pena accessoria ha sostanzialmente recepito le indicazioni della stessa Corte Costituzionale, ma piuttosto perché tale pena accessoria è prevista solo per reati che destano particolare allarme sociale (è significativa la mancata inclusione in tale ambito del peculato d’uso) e consegue solo alla condanna ad una pena non inferiore a tre anni di reclusione. Quanto alla rimozione, si tratta in sostanza di stabilire se la privazione del grado, che fa discendere il militare condannato alla condizione di semplice soldato o di militare di ultima classe, sia compatibile o meno con la sua permanenza in servizio, perché solo nel primo caso si potrebbe affermare che l’applicazione di tale pena accessoria non ha effetti risolutivi del rapporto d’impiego e quindi tali effetti possono conseguire solo all’irrogazione della sanzione disciplinare della perdita del grado. La tesi negativa è stata sostenuta in passato dai giudici amministrativi(18) con riferimento ad un appartenente alla Guardia di finanza(19), sul presupposto che la dissociazione tra effetti automatici imputabili alla pena accessoria della rimozione ed effetto espulsivo conseguente all’esercizio della potestà disciplinare non è ipotizzabile per gli appartenenti alla Guardia di finanza, per i quali non è più giuridicamente possibile la continuazione del rapporto d’impiego a seguito della privazione del grado, non essendo previsto dall’ordinamento del Corpo l’impiego di soldati semplici.

Pertanto parrebbe inevitabile la conclusione che, a seguito della privazione del grado, l’amministrazione militare debba prendere atto del venir meno di uno dei requisiti richiesti per la continuazione del rapporto d’impiego e quindi dichiarare la cessazione dal servizio. Infatti, l’ordinamento militare non prevede un vero e proprio rapporto di pubblico impiego con i soldati semplici (trattandosi di cittadini che assolvono l’obbligo di leva), mentre tale rapporto sorge con i militari di professione proprio con il conferimento del grado. Tuttavia tale conclusione, come già evidenziato, non è stata condivisa dalla Corte Costituzionale(20). Infatti la Consulta, da un lato, ha dichiarato l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale relativa all’automatica applicazione della rimozione, rilevando che tale pena accessoria di per sé non comporta la cessazione dal servizio e, dall’altro, ha dichiarato incostituzionali l’articolo 12, lett. f ), e l’articolo 34, n. 7, della legge 18 ottobre 1961, n. 1168, nella parte in cui non prevedono l’instaurazione del procedimento disciplinare per la cessazione dal servizio per perdita del grado conseguente all’applicazione della pena accessoria della rimozione, ribadendo l’illegittimità della destituzione di diritto e la necessità che si svolga il procedimento disciplinare al fine di assicurare di graduare la sanzione in funzione della gravità del fatto commesso.


9. Le pene accessorie militari nel disegno di legge di riforma dei codici penali militari

Nelle pagine che precedono sono state messe in luce talune smagliature del vigente sistema delle pene accessorie militari, specie con riferimento alla mancata previsione della pena accessoria dell’estinzione del rapporto d’impiego per i reati contro l’amministrazione previsti dal codice penale militare di pace e alla difficoltà di conciliare l’automatica risoluzione del rapporto d’impiego, che sembra inevitabilmente discendere dall’applicazione della rimozione, con l’esigenza di graduare la sanzione in funzione della gravità del fatto contestato al militare. Di entrambi i problemi si è occupata la Commissione di studio per la revisione della legge penale militare, istituita dal Ministro della Difesa. Tuttavia, mentre riguardo al primo problema la Commissione, nella sua relazione finale, si è limitata a rilevare l’esigenza di introdurre anche per i reati militari la pena accessoria di cui all’articolo 32 quinquies c.p., ben più dettagliata è stata la posizione assunta in merito all’ambito applicativo e agli effetti della rimozione.

In particolare, la Commissione ha evidenziato che la rimozione “è pena accessoria del tutto originale e coerente con specifiche esigenze del consorzio militare, consistenti nell’assicurare la prosecuzione della prestazione del servizio militare nella posizione di militare di ultima classe, anche da parte di militari che, a cagione del reato commesso, si siano rivelati indegni di continuare a ricoprire il grado posseduto”. Pertanto, secondo la Commissione, “la funzione di tale istituto sembra ancorata, soprattutto, alle situazioni in cui è applicabile la legge penale di guerra, dato che, in tempo di pace, appare difficile immaginare la prosecuzione del servizio militare, come semplice soldato o militare di ultima classe, da parte di militari che anteriormente alla condanna rivestivano un grado. Tale considerazione è, soprattutto, valida con riguardo alla imminente professionalizzazione delle Forze armate, in cui l’attribuzione di un grado è, comunque, connessa alla instaurazione di un rapporto d’impiego”.

Poste tali premesse, la Commissione, pur ritenendo opportuno il mantenimento di tale pena accessoria, ha proposto di limitarne l’applicazione solo alle ipotesi di particolare gravità, evidenziando che “la individuazione di specifiche ipotesi di reato che rendano obbligatoria la rimozione …, ovvero che ne impongano l’applicazione automatica, desta particolare perplessità, perchè non consente, né al giudice, né all’amministrazione militare, una valutazione in concreto di proporzione e congruità fra la gravità della condanna irrogata e l’effetto, particolarmente incisivo sullo stato giuridico del militare, della pena accessoria”. Devono quindi essere accolte con favore le prospettive di riforma della disciplina delle pene accessorie militari desumibili dal disegno di legge delega per la revisione delle leggi penali militari di pace e di guerra, recentemente presentato al Senato dal Ministro della Difesa(21), perchè il Governo ha affrontato i problemi evidenziati nei paragrafi che precedono e sostanzialmente raccolto le proposte formulate dalla Commissione di studio. Infatti l’articolo 3, comma 1, lett. a), relativo alle modifiche da apportare al codice penale militare di pace(22) prevede, tra l’altro, i seguenti principi e criteri direttivi: “limitare, in tema di pene accessorie, i casi di applicazione automatica della rimozione in connessione al titolo di reato per cui è intervenuta condanna, escludendo l’automaticità della rimozione nel caso di concorso con inferiore; regolamentare in termini omogenei la sospensione dall’impiego e dal grado e prevedere la pena accessoria dell’estinzione del rapporto d’impiego”.


(*) - Magistrato, Consigliere del TAR Campania.
(1) - Si fa riferimento, in particolare, alla legge 27 marzo 2001, n. 97 (pubblicata sulla G.U. n. 80 del 5 aprile 2001), recante “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche”; alla legge 12 giugno 2003, n. 134 (pubblicata sulla G.U. n. 136 del 14 giugno 2003), recante “Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti”; all’art. 57, comma 3, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (pubblicata sul S.O. alla G.U. n. 299 del 27 dicembre 2003), recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2004)”; al decreto legge 16 marzo 2004, n. 66 (pubblicato sulla G.U. n. 64 del 16 marzo 2004), recante “Interventi urgenti per i pubblici dipendenti sospesi o dimessi dall’impiego a causa di procedimento penale, successivamente conclusosi con proscioglimento”.
(2) - Si veda il disegno di legge n. 2493, presentato al Senato dal Ministro della difesa, di concerto col Ministro della giustizia, in data 19 settembre 2003, recante “Delega al Governo per la revisione delle leggi penali militari di pace e di guerra, nonché per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare”.
(3) - Tale affermazione costituisce il punto di partenza del ragionamento che ha indotto la Corte Costituzionale (sentenza 25 luglio 2002, n. 394) a dichiarare incostituzionale l’articolo 10, comma 1, della legge n. 97/2001 nella parte in cui dispone l’applicabilità della nuova disciplina degli effetti della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti nel giudizio disciplinare, introdotta dai primi due articoli della stessa legge, ai patteggiamenti perfezionatisi anteriormente alla sua entrata in vigore.
(4) - Si veda l’articolo 5, commi 1, 2 e 3, legge n. 97/2001.
(5) - La disposizione in esame punisce con le pene stabilite dagli articoli 215 e 219 c.p.m.p. “il militare della Guardia di finanza che commette una violazione delle leggi finanziarie costituente delitto, o collude con estranei per frodare la finanza, oppure si appropria o comunque distrae, a profitto proprio o di altri, valori o generi di cui egli, per ragione del suo ufficio o servizio abbia l’amministrazione o la custodia o su cui eserciti la sorveglianza”.
(6) - Si parla al riguardo di patteggiamento allargato per indicare che, in base al nuovo art. 444, comma 1, “l’imputato e il pubblico ministero possono chiedere al giudice l’applicazione, nella specie e nella misura indicata, di una sanzione sostitutiva o di una pena pecuniaria, diminuita fino a un terzo, ovvero di una pena detentiva quando questa, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino a un terzo, non supera cinque anni soli o congiunti a pena pecuniaria”, mentre in precedenza la pena richiesta non poteva superare i due anni di reclusione o di arresto. Peraltro, in base al nuovo comma 1-bis “sono esclusi dall’applicazione del comma 1 i procedimenti per i delitti di cui all’art. 51 commi 3-bis e 3-quater, nonché quelli contro coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali e per tendenza, o recidivi ai sensi dell’art. 99, quarto comma, del codice penale, qualora la pena superi due anni soli o congiunti a pena pecuniaria”.
(7) - Cons. Stato, Sez. IV, 13 dicembre 1999, n. 1875.
(8) - Cons. Stato, Sez. III, 8 maggio 2002, n. 847.
(9) - Cons. Stato, Sez. IV, 2 giugno 2000, n. 3156.
(10) - Cons. Stato, Sez. VI, 1 settembre 2000, n. 4647.
(11) - La prima è determinata dalla sentenza di assoluzione pronunciata, ai sensi dell’art. 530, comma 1 c.p.p., “perché il fatto non sussiste” o “perché l’imputato non lo ha commesso”, analizzata nel paragrafo 4, ove si è posto in evidenza che l’efficacia di giudicato della sentenza penale va intesa in tal caso come impedimento assoluto per l’amministrazione di esercitare l’azione disciplinare per gli stessi fatti che hanno formato oggetto del procedimento penale.
(12) - Cons. Stato, Sez. IV, 9 dicembre 2002, n. 6669.
(13) - Per completezza si evidenzia che, in base all’art. 33, comma 2, c.p.m.p., la degradazione consegue anche alla dichiarazione di abitualità o di professionalità nel delitto, ovvero di tendenza a delinquere pronunciata per reati previsti dalla legge penale comune.
(14) - Si rammenta che secondo tale disposizione la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni per i delitti previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319 ter e 320, ferma restando l’applicazione delle pene accessorie dell’interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici, importa altresì l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego nei confronti del dipendente di amministrazioni od enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica.
(15) - Si veda l’articolo 5, comma 3, legge n. 97/2001.
(16) - A queste ipotesi si deve ovviamente aggiungere quella prevista dall’art. 33, comma 1, n. 1, c.p.m.p., cui si è fatto cenno trattando dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici.
(17) - Cass., Sez. I, 24 aprile 2001, n. 25908/2001.
(18) - Cons. Stato, Sez. IV, 13 febbraio 1995, n. 81.
(19) - Si noti che tali affermazioni devono oramai ritenersi valide non solo per i militari della Guardia di Finanza e dell’Arma dei Carabinieri, ma anche (a seguito del riordino delle carriere attuato con i decreti legislativi del 12 maggio 1995, n. 196, n. 198 e n. 1999) per tutti i militari delle Forze armate in servizio continuativo.
(20) - Si fa riferimento alla citata sentenza n. 363/1996.
(21) - Si veda al riguardo la nota 2.
(22) - Si evidenzia, per completezza, che l’articolo 4, comma 1, lett. a), relativo alle modifiche da apportare al codice penale militare di guerra, reca i i seguenti principi e criteri direttivi in materia di pene: “determinare le pene principali ed accessorie per le singole fattispecie con riferimento alle ipotesi base e a quelle oggetto di circostanze aggravanti o attenuanti mediante criteri di adeguatezza e di congruità nel quadro sistematico del codice penale militare di guerra”.